Stefania Toro

I libri di scuola ci insegnano che la luce è un’onda elettromagnetica che si propaga nel vuoto e che dobbiamo la nostra vita a quella solare. Ma chi di questa forma d’energia ha fatto il proprio lavoro sa che c’è molto di più da raccontare. La luce è anche intuizione, studio e progetto. La luce è cultura e ce ne parla Stefania Toro, socia di Condiviso, architetta e lighting designer, in questa breve chiacchierata.

 

Stefania, quanto conta la luce nelle nostre vite?

(S) La luce, sia essa naturale o artificiale, è molto importante poiché può incidere sullo stato d’animo ed emotivo di una persona. Ad esempio, uno spazio pubblico all’aperto mal illuminato può generare senso di insicurezza ed angoscia, o viceversa, se ben illuminato e volto a valorizzare l’architettura del luogo può incidere sulla percezione di sicurezza ed invogliare le persone ad attraversare quello spazio.

 

Tu sei lighting designer, un mestiere che non tutti conoscono. Puoi spiegarmi chi sono e cosa fanno le/i lighting designer?

(S) Il lighting designer è un professionista che si occupa della progettazione dell’illuminazione di uno spazio aperto o di un ambiente interno. Il lighting designer molto frequentemente lavora in team con altri professionisti ed insieme a loro si prefigge l’obiettivo di valorizzare lo spazio che illuminerà.

 

In quali ambiti, settori o circostanze è maggiormente richiesto l’intervento di questә professionista?

(S) In genere in ambito teatrale, architettonico e urbanistico. In Italia non è ancora visto come un professionista necessario alla stesura di un progetto insieme ad ingegneri e architetti. Purtroppo, dobbiamo fare ancora molta strada in questo senso.

 

Come ha inizio un progetto luminoso?

(S) Si parte dall’analisi del contesto e dalle necessità del committente. Ci si pone obiettivi comuni e, con un lavoro di squadra molto minuzioso, si cerca di assolvere a tutte le necessità, nel rispetto di vincoli paesaggistici, architettonici e delle normative in vigore.

 

Qual è il tipo di tecnologia che utilizzi di più? 

(S) Sempre più spesso, e direi quasi esclusivamente, si utilizza la tecnologia a led che negli ultimi anni ha fatto passi da gigante in termini di tecnologia, caratteristiche tecniche e resa illuminotecnica.

 

Ti sei fatta un’idea di quale caratteristica non debba mai mancare in un allestimento luminoso di successo per essere considerato tale?

(S) Sì: l’aspetto emozionale. Ogni progetto deve essere studiato per valorizzare il contesto, anche quello meno stimolante esteticamente, accogliere le persone ed emozionarle.

 

Sicuramente ti ricordi ogni dettaglio del progetto più bello e importante della tua vita. Ci racconti qualcosa al riguardo? 

(S) Il progetto più stimolante affrontato e realizzato è stato quello per la Manifattura Tabacchi di Cagliari, primo vero progetto importante in termini di metratura ma anche per l’importante significato in termini di rigenerazione urbana, poiché ha permesso la ristrutturazione di un’area abbandonata da anni permettendone la rinascita come polo per la creatività aperto al tessuto urbano.

Un altro progetto a cui sono molto legata è un piccolo intervento temporaneo di lighting, una proiezione sulla facciata dell’Hennebique nell’area portuale di Genova. Una proiezione su un edificio dal forte valore simbolico, un ex silos granaio, da tempo destinato all’abbandono. Un intervento che ha acceso il dibattito pubblico su quell’area.

 

Domanda diretta a cui ti chiedo di rispondere di getto: mi dici un aspetto positivo e uno negativo del tuo lavoro?

(S) Positivo: lavorare con professionisti differenti. Questo mi permette una grossa crescita professionale continua.

Negativo: spesso è un lavoro non compreso, viene confuso con quello di chi disegna lampade. È necessario lavorare il doppio poiché alla base bisogna educare alla cultura della luce.

 

Esiste un progetto di cui ti sarebbe piaciuto essere l’autrice, ma che ha creato un’altrә professionista?

(S) Il progetto dell’illuminazione del Mucem di Marsiglia, realizzato dal lighting artist Yann Kersalè.

 

Perché consiglieresti a qualcuno di diventare un lighting designer? 

(S) Perché è un lavoro creativo, stimola l’immaginazione, migliore la percezione dello spazio nelle persone, contribuisce al benessere psicofisico. È un lavoro che ti forma continuamente poiché ti permette di lavorare con professionisti differenti specializzati in ambiti differenti (architetti, ingegneri, paesaggisti, agronomi, sociologi, antropologi…).

 

Parli spesso di Women in Lighting. Di cosa si tratta? 

(S) Un network internazionale che unisce professioniste donne che operano del settore della progettazione illuminotecnica.

 

Qual è la cosa più strana che ti è successa lavorando ad un progetto di lighting design? 

(S) Più che strana direi interessante. Per il progetto dell’illuminazione dei percorsi e di alcune vasche dell’Acquario di Genova, abbiamo dovuto osservare gli animali e parlare con i biologi che ci hanno illustrato comportamenti, tempi di veglia, colore della luce necessario a non interferire con i bioritmi degli animali. Un progetto dove il discorso dell’interdisciplinarietà si è reso necessario.

 

Un’ultima domanda a bruciapelo: luce calda o fredda? 

(S) A seconda dell’intervento è necessario utilizzare temperature della luce differenti. Normalmente la luce bianca calda viene impiegata per gli interni delle abitazioni ma anche degli uffici, mentre la luce bianca fredda, ovvero quella che va oltre i 4000 gradi Kevin, viene scelta per illuminare grandi spazi aperti o piani di lavoro destinati alla preparazione gastronomica. Scegliere il giusto colore della luce è anche importante per esaltare ad esempio l’effetto suggestivo degli arredi. È bene sottolineare che non esiste una regola generale per quanto riguarda la scelta del colore della luce delle lampadine, e ciascuno può scegliere in base alle proprie esigenze di illuminazione e alle proprie preferenze. Tuttavia, è pur vero che la tonalità della luce influisce molto a livello psicologico e determina degli stati d’animo a seconda della sua intensità.

Foto: grazie a Formalighting e Women in LightingItaly.

Un viaggio in rete alla scoperta delle nostre ultime metamorfosi

Si chiama “Farm to Fork” (F2F) letteralmente “dalla fattoria alla forchetta”, in altre parole “dal produttore al consumatore”. È il nome del programma europeo a supporto dell’intera filiera agroalimentare, un progetto ambizioso, lanciato a maggio 2020 – subito dopo la prima ondata della pandemia – ed è il cuore del green deal europeo. L’obiettivo è, entro il 2030, di trasformare il sistema alimentare europeo, rendendolo più sano, equo e sostenibile.

Parte da qui la terza tappa del nostro viaggio – attraverso la piattaforma web distilled – alla scoperta, questa volta, dell’agricoltura di domani. Un sistema alla ricerca di nuovi equilibri tra ecologia e tecnologia, all’insegna della sostenibilità, dell’accessibilità e della lotta agli sprechi. In rete, è ricchissimo il dibattito sul rapporto tra agricoltura e nuove tecnologie: piani di sviluppo, convegni, hub territoriali, reti tra imprese e centri di ricerca, startup. Dall’inizio dell’anno, gli articoli, le news online, i blog e i post che citano le espressioni “agritech”, “foodtech” o “smart agricolture” sono oltre 32mila, per l’85% dei casi in lingua inglese, ma l’Italia non è affatto da meno.

Tra gli ecosistemi dell’innovazione previsti dal PNRR – dovrebbero essere 12 in tutta Italia – viene definito quello dedicato alle tecnologie per l’agricoltura. Dovrebbe avere sede a Napoli, nell’area dismessa della ex Manifattura Tabacchi di Napoli est, e valorizzare quell’impianto di competenze e di relazioni che si è sviluppato negli anni in ambito “agritech”. È in questo contesto che opera una delle realtà oggi più interessanti sul tema. Si tratta di RuralHack, una task force composta da ricercatori, attivisti, contadini, hacker, manager e artisti, che “realizza progetti che tengono insieme l’innovazione sociale con l’agricoltura di qualità per la riattivazione delle comunità rurali in armonia con gli strumenti dell’innovazione digitale.

E, proprio in occasione di un evento andato in diretta sulla pagina facebook di RuralHack, l’ex Ministro alle Politiche Agricole Maurizio Martina ha dichiarato: “Più conoscenza per ettaro. La sfida storica che abbiamo di fronte è questa, ovvero sviluppare processi che portino all’utilizzo della rivoluzione digitale in campo per produrre meglio consumando meno”. La sintesi perfetta di ciò che sta già accadendo: e così noi italiani – tra una pizza e un mandolino – ci mettiamo blockchain, intelligenza artificiale, sistemi IoT, digital farming, vertical farming e via dicendo. Le storie di successo si moltiplicano con uno story telling strepitoso tutto dal sapore nostrano. Ecco qualche esempio raccolto in questa prima metà dell’anno.

Alce Nero – azienda attiva in Italia da oltre 40 anni nella produzione e trasformazione di prodotti alimentari biologici – qualche mese fa lancia il progetto blockchain grazie al quale traccia l’intero ciclo di vita dell’Olio extra vergine di oliva biologico D.O.P. Terra di Bari Bitonto, grazie alla collaborazione con l’azienda hi-tech EZ Lab. In pratica su ogni bottiglia c’è un QRCode che consente di accedere a tutte le informazioni che riguardano ciascuna fase della catena produttiva.

Dal Sud al Nord, emerge NIREOS – spin-off del Politecnico di Milano, premiata e citata per le sue soluzioni di spettroscopia (producono interferometri, spettrometri e telecamere iperspettrali). Con il progetto “Spectral Camera for Agritech”, NIREOS porta sul mercato un’innovativa camera spettrale per lo Smart Farming e la Precision Agriculture. La telecamera, in pratica, consente di monitorare le coltivazioni e analizzare il terreno con elevata accuratezza ed in tempo reale, ottimizzando le risorse, riducendo gli sprechi e aumentando la qualità e la quantità di raccolto.

Continuando a surfare sul web tra agricoltura e tecnologia, è facile imbattersi in numerosi articoli riguardanti il “vertical farming”. Il Sole 24 Ore ad aprile dedica a questo tema un approfondimento estremamente interessante . Si tratta di coltivazioni in ambienti controllati dove sperimentare tecniche produttive sempre più efficienti. Il dibattito è piuttosto acceso tra chi considera questo tipo di soluzione ottimale – specialmente per gli approvvigionamenti delle città – e chi troppo oneroso in termini di risorse energetiche.

Nel frattempo, comunque, a Cavenago in provincia di Milano, Planet Farms ha dato vita ad una struttura di oltre 9mila metri quadrati in cui si producono tra le 40mila e le 60mila confezioni al giorno di insalata ed erbe aromatiche. Tutto intorno a queste soluzioni c’è un indotto di altre startup e team di ricerca, e anche una sfida: “Una Vertical Farm tira l’altra. O almeno questo è l’effetto che ha su di noi” dichiarano i fondatori. Dal “vertical farming” all’“exponential farming”, con robotica e intelligenza artificiale, ONO EF – startup italiana con sede a Verona – lancia “ONO EF Farm Zero”, una piattaforma agrobotica iper-efficiente di coltivazione intensiva verticale, modulare e scalabile, completamente automatizzata (AI).

Anche in Liguria, che tra terrazzamenti e muretti a secco di “agricoltura verticale” – anche se di tutt’altro genere – ne sappiamo qualcosa da secoli, non siamo da meno. Dal sodalizio tra due consolidate realtà genovesi – il Gruppo Fos specializzato in soluzioni tecnologiche e l’oleificio Santagata 1907 che da oltre 110 anni seleziona e commercializza olio extra vergine di qualità – è nato “Piano Green”, una startup dedicata a sviluppare digital farming solutions. Tra i suoi prodotti di punta, il Microcosmo – uno smart field simulator, con brevetto Fos S.p.A. nato in collaborazione con ENEA – e Eye Trap, un sistema di trappole intelligenti per il controllo e il monitoraggio della lotta fitosanitaria agli insetti infestanti.

E a proposito di nuove tecniche di coltivazione, a Pordenone ogni anno si incontrano ricercatori e imprenditori specializzati in vertical farming e coltivazioni fuori suolo grazie alla mostra-convegno internazionale NovelFarm. Dopo l’edizione digitale del 2021, il prossimo appuntamento in presenza è già programmato per febbraio 2022.

Insomma, avevate in mente di ritornare alla terra, trasferirvi in campagna e dedicare tempo ed energia alla natura e ai suoi ritmi? Benissimo! Abbiamo un dannato bisogno di data scientist, sviluppatori IoT, ingegneri esperti in sistemi agricoli alternativi, possibilmente con un alto grado di specializzazione tecnica e informatica. Semplice!