La storia di Milena

In occasione del 25 novembre, la Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne, Condiviso aderisce a “Fai tua la sua storia”, l’iniziativa di Legacoop Liguria contro la violenza sulle donne facendo propria la storia di Milena.

Impegnamoci contro la violenza e in favore della memoria.

Condividere, liberare, ricordare.

 

Milena: dieci anni dopo aver deciso di riprendere in mano la sua vita.

Sono passati dieci anni dal giorno in cui ho deciso di riprendere in mano la mia vita, me, i miei sogni. Dieci anni in cui ogni salita è stata accompagnata dalla fatica, dal tentativo di riordinare un passato sbagliato, tutti i falsi ricordi, quei momenti in cui ho creduto nell’amore incondizionato che un padre avrebbe dovuto darmi e che, invece, avevo solo continuato a sperare di ricevere. Ho dovuto fare pace con quella bambina, arrabbiata per tutte le volte che non ho saputo aiutarla, per tutte le volte che avrebbe voluto parlare senza avere voce per farlo. Le ho parlato. Ho cercato di spiegarle che ci sono stata sempre. Che l’ho sempre amata. Che sarà sempre parte di me. Che non la dimentico. Avrei voluto dirle tante volte, prima d’oggi, che sarebbe andato tutto bene senza sentire in bocca il sapore amaro della menzogna. Avrei voluto portarla via, salvarla prima che la vita le raccontasse che il male è orribile e distrugge tutto, che l’amore è falso come i momenti felici. Avrei voluto lasciarle il sorriso che le vedevo in foto, quando ancora il suo papà era l’eroe che l’avrebbe salvata da tutto.

In questi dieci anni, credo mi abbia perdonata e sono sicura di averla convinta che il mondo non è fatto di cartapesta e che il bene esiste. I lividi sul suo corpo sono scomparsi. Quella sensazione di cadere giù, nel nero, è svanita. In questa salita immensa ho perso tante cose che credevo mi appartenessero. La mia famiglia si è spezzata. Quei volti che avevo amato erano ormai estranei. Ma ho scoperto anche che il mondo è ricco di amore. Che ci sarà sempre qualcuno che non ti aspetti pronto a prenderti per mano. Conservo ancora il ricordo chiaro delle parole del mio avvocato, che ringrazio come una cara amica, come una donna eccezionale. Mi aveva detto “ce la puoi fare”. Ho letto quelle parole in ogni suo gesto, in ogni attenzione, in tutto il supporto. E sono qui oggi grazie a lei. Perché mi ha restituito la voce, una voce forte, che hanno ascoltato. Perché lentamente mi ha tolto di dosso tutta l’impotenza che sentivo come un secondo vestito. Perché mi ha ridato la speranza. Oggi posso dire che è finita, che tutto appartiene al passato ed è stato come aprire gli occhi dopo un sogno lunghissimo. Ho quasi paura di svegliarmi. Mi guardo intorno e l’aria sembra più chiara, la respiro a pieni polmoni, leggera, fresca. Nello specchio non vedo più il suo volto, quei lineamenti, ormai, non gli appartengono: sono solo io. Sono io. E c’è ancora tempo. C’è ancora il bene da conservare. Esistono ancora sogni che posso concedermi. Esiste la giustizia.

Mi fermo. Riguardo le parole che ho scritto con un sorriso. Sono ancora capace di farlo e solo per questo la vita rimane qualcosa di meraviglioso. Sono viva. Sono qui. Sono grata. Prendo per mano la piccola Milena, la piccola me. Mi guarda sorridendo anche lei, come in quelle foto, e mi dice grazie. “Ti voglio bene, piccola, ce l’hai fatta alla fine. Sei al sicuro. Sono qui.” In piedi, di fronte il mondo che ci aspetta, camminiamo, senza dimenticare nulla ma scegliendo di ricordare quell’amore che abbiamo saputo proteggere, che ci rende e mi rende oggi quella che sono. Coraggio. Forza. Speranza. Donna.

Milena.

Nel mare dei big data della comunicazione – in una sovrabbondanza di contenuti tra web, social e press – cerchiamo un’isola dove approdare. È così che ha preso forma questa ricerca – sempre intorno al concetto di comunità – che oggi si interroga intorno alle “comunità di cura”. E come spesso capita quando si è in viaggio, lo stupore di ciò che si trova supera di gran lunga la curiosità di quando si era partiti. Dal Brasile alla Valchiusella, dalla cultura alla culla, il mondo intero si manifesta con intelligenza, con bellezza, con crudezza.

Con “comunità di cura” si intende – in estrema sintesi – la capacità di prendersi cura degli altri e di darsi reciprocamente una mano. Emergono, con questa espressione, pochi contenuti – in termini quantitativi e a confronto con le “comunità” trattate nei precedenti articoli – ma piuttosto d’impatto. Riflessioni che aprono delle strade dalle quali poi difficilmente si riesce a tornare indietro.

Dall’America Latina, il reportage più crudo. Una riflessione collettiva in quattro parti dal titolo “Masterclass della fine del mondo”. Riguarda gli ultimi anni, in Brasile. Sono gli anni di Bolsonaro e quelli della pandemia. Le parole “inferno”, “collasso”, “fine del mondo” si susseguono. Ogni tre righe una pugnalata al cuore. Fortunatamente il susseguirsi di espressioni come “cura”, “comunità” e “aiuto reciproco” offre quella boccata di ossigeno per continuare a leggere di una catastrofe sociale arginata proprio grazie alle reti, quelle dei familiari, degli amici e dei volontari.

In questo mare di notizie in tempesta, ci lancia un salvagente la Gran Bretagna, dove il collettivo inglese The Care Collective ha teorizzato e pubblicato il “Manifesto della cura. Per una politica dell’interdipendenza” (in Italia edito da Alegre) che cerca di dare una risposta alla domanda: come possiamo dare vita a sistemi in cui l’interdipendenza degli uni dagli altri sia finalmente riconosciuta, in forme solidali e paritarie? Il manifesto individua quattro cardini fondamentali per dare vita a comunità di cura: il mutuo soccorso, lo spazio pubblico, la condivisione di risorse e la democrazia di prossimità.Una «cura promiscua», che non discrimina nessuno ed è fuori dalle logiche di mercato. L’obiettivo è arrivare a un vero e proprio «stato di cura» che non solo crea infrastrutture di welfare «dalla culla alla tomba» ma genera una nuova idea di democrazia orientata ai bisogni collettivi. Dimostrando che la cura è il concetto e la pratica più radicale che abbiamo oggi a disposizione”.

Anche l’Italia, in questo viaggio tra web e social intorno alle “comunità di cura”, si distingue – in queste ultime settimane – con contenuti illuminanti da un lato e rincuoranti dall’altro, in particolare ne segnaliamo tre.

Il primo ci porta in Valchiusella, in provincia di Torino, dove sarà attivata la seconda comunità rurale dementia friendly in Italia. Le comunità dementia friendly sono comunità urbane “amichevoli” con i propri concittadini affetti da demenza. Situazioni molto diffuse a livello internazionale oggi contano anche numerose esperienze in Italia. Il punto è affrontare la demenza, da un lato, attraverso percorsi di diagnosi precoce e, dall’altro, grazie alla comunità che diventa un vero e proprio strumento di cura, accoglienza e inclusione.

La “Sentinella del Canavese” racconta così l’esperienza: “C’è una valle, la Valchiusella, che viene utilizzata come una comunità educante, un luogo dove si incontrano, confrontano e approfondiscono temi studenti e ricercatori di vari profili disciplinari, e c’è una comunità di cura che si attiva e ravviva grazie alla rete sociale e al ruolo attivo della popolazione nel prendere in carico il proprio diritto- dovere al benessere”.

Immagine 1 – Valchiusella, Cima Bossola, foto tratta da https://visitcanavese.it

Il secondo vede come protagoniste due realtà che si occupano della cura e dell’educazione di bambini e ragazzi, tra le più importanti ed attive in Italia. Una è “Save the children” che offre una definizione incantevole di “comunità di cura”: “la comunità di cura è il luogo ideale in cui la «culla sociale» prende forma. La comunità di cura può essere considerata come uno spazio fisico, di relazione, di servizi e di informazioni, dove i genitori con i loro bambini possono muoversi nel modo più semplice e agevole”. L’altra è la Fondazione “Con i bambini” – fondo nazionale per il contrasto alla povertà educativa – che dedica specifici progetti alla “cura dei legami, quelli che spezzano la solitudine, che aprono le porte, che riaccendono le speranze, i talenti ed i sogni”.

Infine, il nostro viaggio ci porta a Roma in occasione di “E.P.ART Festival – Innescare musei per curare territori”, un progetto promosso da “Ecomuseo Casilino” che nasce per dare vita a processi di musealizzazione diffusa nella periferia est di Roma attraverso la realizzazione di opere di street art. In pratica, insieme ai membri dell’Ecomuseo Casilino, le comunità – coinvolte attraverso call pubbliche e formate da associazioni, imprese e singoli cittadini – costituiscono dei “comitati di cura” per scegliere insieme le location, i temi e gli artisti che eseguono le opere.

Qui sotto l’immagine del primo murale realizzato a Centocelle, per approfondire a questo link si può navigare e “toccare con mano” la bellezza, la comunità, la cura.

Immagine 2 – nella foto il primo murale realizzato a Centocelle

Questo articolo è uscito il 5 agosto 2022 sul blog di Maps Group.

Generaimprese e Condiviso

Genera Imprese è un fondo rotativo che sostiene progetti di diversificazione, riorganizzazione ed innovazione del mondo cooperativo attraverso la creazione di una «piattaforma abilitante» in grado di fornire risorse economiche e manageriali (capitale, assistenza, servizi, networking, strategia).

La rete di soggetti che ne fanno parte sostiene i valori della cooperazione e crede in un modello di lavoro e di sviluppo che mette la persona al centro. Ecco perché appoggiano l’avvio di iniziative innovative attente al capitale umano e ai valori della responsabilità sociale.

Dal 30 settembre scorso, Genera Imprese è entrato a far parte della compagine sociale di Condiviso, per supportare la fase di crescita del nostro percorso imprenditoriale e favorire lo sviluppo di alcuni progetti specifici sul territorio nazionale.

Siamo molto lieti di questa collaborazione che ci permette di concentrarci su alcune linee di business in particolare e di avvalerci di una consulenza di business development specializzata.

Stefania Toro

I libri di scuola ci insegnano che la luce è un’onda elettromagnetica che si propaga nel vuoto e che dobbiamo la nostra vita a quella solare. Ma chi di questa forma d’energia ha fatto il proprio lavoro sa che c’è molto di più da raccontare. La luce è anche intuizione, studio e progetto. La luce è cultura e ce ne parla Stefania Toro, socia di Condiviso, architetta e lighting designer, in questa breve chiacchierata.

 

Stefania, quanto conta la luce nelle nostre vite?

(S) La luce, sia essa naturale o artificiale, è molto importante poiché può incidere sullo stato d’animo ed emotivo di una persona. Ad esempio, uno spazio pubblico all’aperto mal illuminato può generare senso di insicurezza ed angoscia, o viceversa, se ben illuminato e volto a valorizzare l’architettura del luogo può incidere sulla percezione di sicurezza ed invogliare le persone ad attraversare quello spazio.

 

Tu sei lighting designer, un mestiere che non tutti conoscono. Puoi spiegarmi chi sono e cosa fanno le/i lighting designer?

(S) Il lighting designer è un professionista che si occupa della progettazione dell’illuminazione di uno spazio aperto o di un ambiente interno. Il lighting designer molto frequentemente lavora in team con altri professionisti ed insieme a loro si prefigge l’obiettivo di valorizzare lo spazio che illuminerà.

 

In quali ambiti, settori o circostanze è maggiormente richiesto l’intervento di questә professionista?

(S) In genere in ambito teatrale, architettonico e urbanistico. In Italia non è ancora visto come un professionista necessario alla stesura di un progetto insieme ad ingegneri e architetti. Purtroppo, dobbiamo fare ancora molta strada in questo senso.

 

Come ha inizio un progetto luminoso?

(S) Si parte dall’analisi del contesto e dalle necessità del committente. Ci si pone obiettivi comuni e, con un lavoro di squadra molto minuzioso, si cerca di assolvere a tutte le necessità, nel rispetto di vincoli paesaggistici, architettonici e delle normative in vigore.

 

Qual è il tipo di tecnologia che utilizzi di più? 

(S) Sempre più spesso, e direi quasi esclusivamente, si utilizza la tecnologia a led che negli ultimi anni ha fatto passi da gigante in termini di tecnologia, caratteristiche tecniche e resa illuminotecnica.

 

Ti sei fatta un’idea di quale caratteristica non debba mai mancare in un allestimento luminoso di successo per essere considerato tale?

(S) Sì: l’aspetto emozionale. Ogni progetto deve essere studiato per valorizzare il contesto, anche quello meno stimolante esteticamente, accogliere le persone ed emozionarle.

 

Sicuramente ti ricordi ogni dettaglio del progetto più bello e importante della tua vita. Ci racconti qualcosa al riguardo? 

(S) Il progetto più stimolante affrontato e realizzato è stato quello per la Manifattura Tabacchi di Cagliari, primo vero progetto importante in termini di metratura ma anche per l’importante significato in termini di rigenerazione urbana, poiché ha permesso la ristrutturazione di un’area abbandonata da anni permettendone la rinascita come polo per la creatività aperto al tessuto urbano.

Un altro progetto a cui sono molto legata è un piccolo intervento temporaneo di lighting, una proiezione sulla facciata dell’Hennebique nell’area portuale di Genova. Una proiezione su un edificio dal forte valore simbolico, un ex silos granaio, da tempo destinato all’abbandono. Un intervento che ha acceso il dibattito pubblico su quell’area.

 

Domanda diretta a cui ti chiedo di rispondere di getto: mi dici un aspetto positivo e uno negativo del tuo lavoro?

(S) Positivo: lavorare con professionisti differenti. Questo mi permette una grossa crescita professionale continua.

Negativo: spesso è un lavoro non compreso, viene confuso con quello di chi disegna lampade. È necessario lavorare il doppio poiché alla base bisogna educare alla cultura della luce.

 

Esiste un progetto di cui ti sarebbe piaciuto essere l’autrice, ma che ha creato un’altrә professionista?

(S) Il progetto dell’illuminazione del Mucem di Marsiglia, realizzato dal lighting artist Yann Kersalè.

 

Perché consiglieresti a qualcuno di diventare un lighting designer? 

(S) Perché è un lavoro creativo, stimola l’immaginazione, migliore la percezione dello spazio nelle persone, contribuisce al benessere psicofisico. È un lavoro che ti forma continuamente poiché ti permette di lavorare con professionisti differenti specializzati in ambiti differenti (architetti, ingegneri, paesaggisti, agronomi, sociologi, antropologi…).

 

Parli spesso di Women in Lighting. Di cosa si tratta? 

(S) Un network internazionale che unisce professioniste donne che operano del settore della progettazione illuminotecnica.

 

Qual è la cosa più strana che ti è successa lavorando ad un progetto di lighting design? 

(S) Più che strana direi interessante. Per il progetto dell’illuminazione dei percorsi e di alcune vasche dell’Acquario di Genova, abbiamo dovuto osservare gli animali e parlare con i biologi che ci hanno illustrato comportamenti, tempi di veglia, colore della luce necessario a non interferire con i bioritmi degli animali. Un progetto dove il discorso dell’interdisciplinarietà si è reso necessario.

 

Un’ultima domanda a bruciapelo: luce calda o fredda? 

(S) A seconda dell’intervento è necessario utilizzare temperature della luce differenti. Normalmente la luce bianca calda viene impiegata per gli interni delle abitazioni ma anche degli uffici, mentre la luce bianca fredda, ovvero quella che va oltre i 4000 gradi Kevin, viene scelta per illuminare grandi spazi aperti o piani di lavoro destinati alla preparazione gastronomica. Scegliere il giusto colore della luce è anche importante per esaltare ad esempio l’effetto suggestivo degli arredi. È bene sottolineare che non esiste una regola generale per quanto riguarda la scelta del colore della luce delle lampadine, e ciascuno può scegliere in base alle proprie esigenze di illuminazione e alle proprie preferenze. Tuttavia, è pur vero che la tonalità della luce influisce molto a livello psicologico e determina degli stati d’animo a seconda della sua intensità.

Foto: grazie a Formalighting e Women in LightingItaly.